venerdì 23 giugno 2017

Ultramaratone e corse nel fango: ecco perché paghiamo per soffrire


Un gruppo di ricercatori ha studiato perché sempre più spesso cerchiamo esperienze dolorose

Correre immersi in un torrente di fango, nuotare nell’acqua ghiacciata o strisciare sotto a dei cavi elettrici. Sembrano delle torture, ma sono in realtà alcune delle prove del Tough Mudder Challenge, ovvero dei percorsi lunghi dai 16 ai 19 chilometri disseminati di ostacoli, dove l’unico scopo è quello di attraversare la linea d’arrivo. Non ci sono vincitori né podio: per superare gli ostacoli si deve infatti contare sull’aiuto dei compagni di squadra e il fine ultimo è quello di mettere alla prova la propria resistenza fisica e mentale. Più di 2.5 milioni di persone in tutto il mondo hanno gareggiato in queste sfide, nonostante ci siano stati gravi infortuni, fra cui arresti cardiaci e fratture, e perfino la morte di un ventottenne del Maryland.

Partecipare ad uno di questi eventi costa intorno ai 100 Euro. “Da un lato ci sono consumatori che ogni anno spendono miliardi di dollari per acquistare antidolorifici e dall’altro guadagnano popolarità esperienze estenuanti e dolorose come corse ad ostacoli ed ultramaratone. Come ce lo spieghiamo? Scoprirlo era l’obiettivo della ricerca” spiega Rebecca Scott della Cardiff Business School, che insieme ai colleghi della Kedge Business School e della Nanyang Technological University ha studiato questo fenomeno.

I ricercatori hanno svolto un’indagine etnografica fra gli iscritti ai Tough Mudder Challenge, analizzato i forum online e intervistato un gruppo di partecipanti. “È un’esperienza incredibile” racconta a La Stampa Rebecca Scott, che per la ricerca ha anche preso parte a questi eventi come spettatrice, volontaria ed atleta.

“Il rapporto fra donne e uomini è circa 40 a 60 e i partecipanti, principalmente professionisti giovani e bianchi, trascorrono la maggior parte della loro vita lavorando in un ufficio” racconta.

I risultati dello studio sono stati recentemente pubblicati da The Journal of Consumer Research.

Secondo i ricercatori il dolore e la conseguente focalizzazione sulle sensazioni fisiche aiuta i partecipanti a sopportare meglio l’inattività tipica del loro lavoro. Inoltre le ferite e i segni che queste competizioni lasciano sul corpo degli atleti sono per i partecipanti una sorta di prova tangibile dell’aver esplorato fino in fondo i limiti del proprio fisico. La mortificazione del corpo, insomma, sembra aiutare a dimenticarsi per un po’ della propria vita impiegatizia.


Fonte: www.lastampa.it